Umberto Lenzi , classe 1931, lo sa come si scrive una storia.
Uno dei maestri indiscussi del film poliziesco all’italiana, anzi “poliziottesco”, dirige nella seconda metà dei settanta pellicole cult come Milano odia: la polizia non può sparare, Roma a mano armata e Napoli violenta…
Erano anni difficili e anche il cinema picchiava duro, dando voce ad una società che si scopriva insicura (e oscura).
Quasi ottantenne, nel 2008, Lenzi dà finalmente corda alla sua latente vocazione al giallo cartaceo, tirando fuori dal cilindro (ma non è un coniglio, anzi…) Bruno Astolfi, detective privato che bazzica il sottobosco del dorato ed ambiguo mondo del cinema dei ‘telefoni bianchi’.
Siamo nel 1940. è marzo, fa freddo, e Astolfi pensa solo a come procurarsi i soldi per un cappotto.
L’Italia sarebbe entrata in guerra entro pochi mesi; l’agenzia investigativa non ingrana, e l’ex pugile ed ex questurino arranca ai margini. L’invito fortuito ad un party del giro di Cinecittà lo porta a conoscere Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, la coppia d’oro del momento. L’attrice è minacciata: un tentato investimento ed un oscuro biglietto listato a lutto; l’uccisione di un’anonima comparsa, ragazza del popolo giunta nella città di cartapesta sulle ali di un concorso di bellezza.
Suo malgrado Bruno si ritrova inviluppato in un mondo non suo, con lo sguardo diffidente di chi la vita l’ha sudata dal basso.
Con la cravatta macchiata e una Balilla che sta sulle ruote per scommessa, l’intrepido detective svolge la sua indagine muovendosi trasversalmente fra la Roma popolare d’osteria e caseggiato, e il sogno nascente d’un mondo immaginario, tra monumentali ricostruzioni d’ambiente e fortuiti incontri con futuri mostri sacri del cinema nostrano, come Vittorio De Sica e Totò, che occhieggiano sornioni fra le pagine, o uno Zavattini che, casualmente, suggerisce a Bruno come proseguire l’indagine. L’ombra della guerra incombe, contrappuntando l’allegria frivola delle canzoni alla radio.
Lenzi convince. Il suo occhio attento ripesca dettagli d’una quotidianità che per lui non è solo ricerca ma anche ricordo diretto, di quando l’autarchia dettava il karkadè in luogo del tè, la stretta di mano era bandita, e si dava del voi.
E il tutto funziona, come un film fatto bene; uno di quei film ‘di genere’, che Lenzi conosce da dentro. Quelli che fanno storcere il naso alle firme di grido, ma che se tirati su con fatica e cura artigianale, magari suscitano le lodi di un tipo di nome Quentin Tarantino
Umberto Lenzi, Delitti a Cinecittà, Mondadori, 2013
Ercole d’Agata, amico di vecchia data di Faber, è un grande appasionato di gialli.