Il tango non è solo bello da ballare, da vedere o da ascoltare. Vale la pena di leggerne anche le parole. I testi dei tanghi hanno una forte connotazione propria che investe le tematiche, le metafore, i personaggi e i luoghi.
Fra i tanti protagonisti il bandoneón, oltre ad incarnare la voce del tango, è di volta in volta il confidente, l’amico, il testimone discreto dei dolori, degli amori e delle disgrazie del protagonista.
El duende de tu son, che bandoneón, /se apiada del dolor de los demás,/ y al estrujar tu fuelle dormilón/ se arrima al corazón che sufre más (Lo spirito del tuo suono, che bandoneón,/ ha pietà del dolore degli altri, /e allo stringersi lento del tuo mantice,/ si avvicina al cuore di chi soffre di più. (Che bandoneón, testo Homero Manzi, musica Aníbal Troilo)
Chiunque abbia sentito suonare un bandoneón sa che è cosi. Questo strumento nato in Germania alla fine dell’ottocento per accompagnare la messa in quelle chiese dove non ci si poteva permettere un organo, ha attraversato il mare ed è diventato la voce delle delusioni e delle disgrazie degli emigrati.
Mario Benedetti (1920-2009) straordinario poeta uruguayano ci ha lasciato un poesia bellissima dove il bandoneón, con il suo mantice in movimento, diventa metafora della vita dell’uomo. La nostra vita è un bandoneón nelle mani di Dio (o chi per lui) che ci “stira in un solo gesto purissimo e poi a poco ci riduce a quasi nulla”. Nel suo movimento continuo di apertura e chiusura ci “strappa confessioni”, “lamenti” ma anche “allegria” e “speranze” che ritornano come i “figliol prodighi” o “come i ritornelli”.
Tuttavia questa considerazione non è pacifica poiché “oggigiorno pochi voglio essere tango”. Per il poeta al giorno d’oggi si preferisce essere qualcosa di più forte come “rumba o mambo o cha cha cha”. Sono poche le persone che vogliono essere tango, perché tolta la rosa fra i denti e messi da parte tutti gli stereotipi, il tango, proprio con i suoi testi, ci insegna che la vita non è per niente facile e soprattutto mai in discesa per quelli che sono poveri, soli o abbandonati. Nell’amara disillusione dei tanghi c’è sempre una consapevolezza composta: il dolore non è mai urlato e sbandierato ai quattro venti, è un qualcosa di privato con cui convivere e con cui fare i conti da soli. Al massimo ci si può concedere il lusso di sfogarsi con l’amico bandoneón o con un occasionale compagno di bevute.
Per questo alla fine della poesia per Benedetti e per tutti noi è chiaro che chiunque sia a suonare la vita bandoneón, “uno sente il tremendo decoro di essere tango, e si lascia cantare”, dimenticandosi che alla fine ci attende la custodia.
Cliccando qui trovate il testo della poesia di Benedetti Bandoneón
Per chi volesse approfondire segnalo: Tango, a cura di P. Collo e E. Franco, Einaudi Tascabili, Torino, 2004
Poesia molta bella, non conoscevo questo poeta. Io inconsapevolmente mi sono sempre sentita “tango” e bandoneòn!
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